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Nido sì, nido no?

Nido sì, nido no? Questa la domanda che molti genitori si pongono e pongono alla nostra associazione che dal 2013 ha ideato e gestisce il Nido Mitades a Trenno, Milano.

La tematica è delicata e tocca più ambiti, da quello personale e delle scelte educative relative ai propri figli, a quello economico e persino politico. Sì, perché andare al nido non è solo decidere come approcciare la crescita del proprio figlio o figlia, ma anche confrontarsi con ciò che il Paese in cui viviamo ci offre.

È degli ultimi giorni la notizia che l’Italia, con ancora grandi differenze tra Nord, Centro e Sud, è ancora lontana dai parametri fissati dall’Unione europea: i posti disponibili negli asili nido in Italia coprono il 24% del potenziale bacino di utenza, ovvero i bambini residenti under 3. Ma ancora di più emerge come i Comuni stiano diminuendo il numero dei nidi a gestione diretta aumentando invece quelli appaltati a enti privati esterni, per ovvi motivi di riduzione delle spese.

Al contrario noi siamo ancora convinti – oggi come nel 2009 quando fondammo l’associazione e nel 2013 quando aprimmo, senza alcun contributo pubblico, il nostro nido – che l’investimento sull’infanzia sia fondamentale e che ogni governo dovrebbe tenerlo tra i principali punti del suo programma.

Questo significa non solo creare e sostenere politiche di supporto alla famiglia e agevolazioni sull’accesso ai servizi educativi per la prima infanzia, ma anche valorizzarne il ruolo fondamentale di opportunità educativa e di crescita dei bambini e delle bambine, oltre che di aiuto alle famiglie lavoratrici.

Più volte abbiamo sottolineato con le nostre azioni e le nostre parole ai nostri soci, alle persone che incontriamo e a diversi pediatri che curano i nostri bambini, l’importanza educativa del nido e dei servizi per bambini sotto i 3 anni ma, come dire, potremmo sembrare “di parte” e allora questo mese abbiamo chiesto alla D.sa Federica Zanetto, presidente di ACP – Associazione Culturale Pediatri, di consigliarci un articolo con evidenze, anche scientifiche, in merito.

Ecco quindi un estratto dell’articolo che la D.sa Zanetto ci ha inviato, scritto da Anduena Alushaj e Giorgio Tamburlini (del Centro per la Salute del Bambino onlus di Trieste) e tratto dalla rivista Medico e Bambino di giugno 2018.

Key words

Maternal time, Childcare, Childcare quality, Child development, Inequity

I bambini, tutti, hanno bisogno che gli sia dedicato un tempo di qualità, che sia in famiglia o al nido.

Non vi è contraddizione tra proporre l’uno o l’altro, anzi, ci può essere buona sinergia.

La relazione tra la quantità e la qualità del tempo passato dalla madre con il bambino e un’ampia serie di esiti cognitivi, non-cognitivi e comportamentali è stata oggetto di numerosi studi.

Uno studio del 2014 di Hsin e Felfe[1] ha distinto tra tempo materno impiegato in attività educationally oriented (attività che includono il tempo speso nello studio, nello svolgimento dei compiti, nella lettura ecc.) da quelle definite come structured (attività non esplicitamente educative, ma che offrono al bambino alti livelli di coinvolgimento e scambi verbali con i genitori) e da quelle unstructured (attività che non richiedono un coinvolgimento attivo o scambi verbali tra bambini e genitori, come ad esempio quando il bimbo guarda la tv). I risultati indicano che sia il tempo educational che quello structured hanno effetti benefici su tutte le dimensioni dello sviluppo cognitivo e anche sugli outcome comportamentali, e che tutti i bambini ne beneficiano, indipendentemente dal background di istruzione delle loro madri, mentre il tempo unstructured ha effetti negativi sia sugli outcome cognitivi che su quelli comportamentali.

Uno studio ISTAT[2] ha evidenziato come i bambini figli di madri che lavorano full-time (≥35 ore/settimana) trascorrono meno tempo con i genitori, ma questo si riflette soprattutto sulla diminuzione delle attività unstructured.

Un altro studio italiano del 2009[3] indica che la riduzione del tempo a disposizione da parte dei genitori che lavorano si traduce in un minor tempo dedicato alle incombenze domestiche o a se stessi, riuscendo in tal modo a passare con i bambini il maggior tempo possibile.

Quello che non si perde quindi è il tempo di qualità dedicato ai figli, senza dimenticare la compensazione derivante dal tempo paterno, che aumenta quando le madri lavorano[4], come dimostrato anche da studi stranieri.

Gli studi sono quindi coerente nel suggerire che:

  • non è tanto la quantità di tempo (generico) con la madre o altri caregiver che influisce sullo sviluppo del bambino quanto il tempo dedicato alle attività di qualità, ovvero a quelle che presuppongono una maggiore interazione tra adulto e bambino;
  • la maggiore disponibilità di tempo delle madri che non lavorano o lavorano part-time non si traduce necessariamente in maggiore disponibilità di tempo d i qualità passato con il bambino.

E I NONNI?

Alcuni studi si sono focalizzati sull’influenza di altri membri della famiglia come sostituti del tempo materno. In Italia, ad esempio, il coinvolgimento dei nonni è molto alto: circa il 30% dei nonni si prendono cura giornalmente dei nipoti, contro il 15% in Germania e il 2% in Svezia e Danimarca[5]. Utilizzando dati del Millennium Cohort Study, lo studio di Del Boca del 2014[6] sull’impatto della cura dei nonni sullo sviluppo cognitivo dei bambini nel breve, medio e lungo termine mostra che, se paragonati ai bambini che hanno frequentato un Servizio di childcare formale, i bambini che sono stati accuditi dai nonni (così come dai genitori) mostrano maggiori capacità nel nominare gli oggetti e peggiori capacità di problem-solving, concetti matematici e construncting ability, per i quali risulta invece più utile la frequenza di un Servizio di childcare.

FREQUENZA AL NIDO E SVILUPPO DEL BAMBINO

Dopo aver esaminato quello che emerge dagli studi sul rapporto tra tempo materno e sviluppo, non c’è da sorprendersi se, anche nel caso della frequenza al nido, il fattore decisivo è la qualità del Servizio.

La Figura 1 consente una visione d’assieme del peso delle diverse esperienze sullo sviluppo linguistico: i bambini che hanno frequentato un nido di qualità hanno uno sviluppo linguistico (produzione e comprensione linguistica) migliore rispetto ai bambini che vengono accuditi solo dalla madre ma anche dei bambini che frequentano un nido di qualità media[7]. I bambini che hanno frequentato nidi di bassa qualità fanno peggio di tutti gli altri.


 

Figura 1. Accudimento materno, qualità del nido e capacità linguistiche a 3 anni [8].

 

Ricerche[9] dimostrano che la relazione tra il numero di ore trascorse in Servizi di childcare e il comportamento del bambino varia in funzione della qualità del Servizio: più ore in quelli di alta qualità possono ricoprire un ruolo protettivo per il funzionamento socio-emotivo dei bambini, riducendo la frequenza sia di problemi internalizzanti che esternalizzanti, mentre una frequenza più lunga in quelli di qualità bassa può rivelarsi dannoso.

Del Boca e Pasqua in uno studio del 2010[10] evidenziano effetti positivi sia sui risultati scolastici che sugli esiti comportamentali derivanti dalla frequenza del nido. Dall’analisi dei dati ISFOL (rilevazione 2007) e INVALSI (anno 2009-2010), e da questionari che indagavano lavoro della madre e utilizzo del nido emerge che:

  • i risultati di italiano e di matematica sia della II che della V elementare sono associati in modo positivo con la frequenza di un nido e questa relazione positiva perdura nel tempo, essendo ancora evidente a 18-21 anni e 22-25 anni;

 

  • l’aver frequentato un nido ha un effetto positivo e significativo su tutti gli indicatori comportamentali studiati (capacità di ascolto, capacità di concentrarsi nello studio, capacità di stabilire relazioni amicali, creatività nel gioco, creatività didattica e capacità di cooperare con i compagni).

 

DOVE STA LA QUALITA’ DEL NIDO

Il suddetto studio sottolinea che l’effetto positivo sui risultati cognitivi si ottiene solo con la frequenza di un nido di qualità (box 4)[11] [12] [13] e che le capacità cognitive dei bambini dipendono non tanto dalla quantità ma soprattutto dalla qualità del tempo che i bambini trascorrono con gli altri caregiver (nonni, babysitter, Servizi educativi) in sostituzione del tempo materno.

Anche le procedure di inserimento sono rilevanti: più lungo è il periodo di inserimento, più frequenti sono i cambiamenti da attaccamento insicuro a sicuro[14]. L’attitudine con la quale il genitore affida il bambino alle cure professionali dell’educatore influisce sul tipo di esperienza del bambino: se il genitore è convinto di affidare il bambino alle cure del Servizio educativo, e quindi a figure sensibili e preparate e attente ai suoi bisogni, allora il processo di distacco sarà più facile. Al contrario, se il genitore avverte questa scelta come obbligata subentrerà un sentimento di colpa che renderà più difficile il momento del distacco.

Inoltre, i genitori saranno più propensi ad affidare il bambino alle cure degli educatori se il legame tra i genitori e il bambino è forte. Questo influirà anche sul rapporto con gli educatori, con i quali verrà costruita una relazione di collaborazione anziché di competizione[15].

FREQUENZA AL NIDO E RISCHIO DI MALATTIE ACUTE E CRONICHE

La maggior frequenza di episodi di infezioni, soprattutto respiratorie e quasi sempre non gravi, nei bambini che frequentano il nido, ha rappresentato e rappresenta uno dei freni all’ingresso dei bambini al nido, o per lo meno a un loro ingresso precoce. I pediatri da questo punto di vista hanno per lo più scoraggiato il nido. In realtà, le evidenze, nel confermare una frequenza più alta di infezioni nei bambini che frequentano il nido, ci dicono anche che questa frequenza poi diminuisce fino a essere più bassa negli anni successivi rispetto ai bambini rimasti a casa[16]. Questo dato trova una facile spiegazione biologica nell’acquisizione progressiva di immunità.[17]

CONCLUSIONI

Le figure di accudimento influenzano la regolazione emotiva del bambino e i successivi comportamenti sociali, pertanto la loro disponibilità nei primissimi anni di vita è fondamentale per lo sviluppo.

Per quanto riguarda il rapporto tra tempo materno, tempo di nido e sviluppo, gli studi dicono che ciò che conta è la qualità sia dell’uno che dell’altro, e che il mix migliore è nido di qualità associato a tempo familiare di qualità.

Non possiamo quindi che ribadire, con una base di evidenza ancora maggiore, le indicazioni di un editoriale di alcuni anni fa[18]: la quantità e la qualità del tempo che i caregiver dedicano ai figli non può essere paragonata con quella offerto da Servizi di childcare, perché quanto viene offerto al bambino appartiene a dimensioni che sono in buona parte diverse. Nulla può sostituire completamente l’interazione con i genitori nei primissimi periodi di vita, ma è anche vero che aspetti relativi a socializzazione, gioco, attività motorie, regole ecc. vengono a mancare in molte delle attuali famiglie.

Questo vale anche per le età di inizio e la quantità di ore trascorse al nido: tanto più la situazione familiare è difficile, tanto meno è il caso di preoccuparsi per un inizio troppo precoce o una frequenza a tempo pieno, che in questi casi, come molti studi indicano, hanno più probabilità di costituire un fattore di protezione nei confronti della povertà educativa intesa in senso lato (non solo cognitivo) che un rischio.

Gli operatori dell’infanzia, pediatri compresi, sono chiamati a sostenere la famiglia nella valutazione di vantaggi, svantaggi e tempi della frequenza al nido.

La cosa importante è che vi sia per tutte le famiglie la possibilità di scegliere, quindi che sia garantita l’accessibilità ai Servizi, e che questi siano di qualità. La ricerca dimostra che i due tipi di cure non sono affatto alternativi: un buon nido e una famiglia in grado di offrire buone opportunità di crescita e di sviluppo produrre effetti sinergici. Si tratta di opportunità che non vanno mai giocate una contro l’altra. Il nido non toglie certo spazio a quanto i genitori possono fare a casa, anche, non dimentichiamo, su suggerimento ed esempio da parte degli educatori.

Un’accessibilità universale a Servizi di qualità per la prima infanzia, idealmente associata a un ampliamento del numero dei genitori che possono usufruire di congedi parentali e all’estensione di questi ultimi, possono contribuire alla riduzione della povertà educativa e anche della povertà materiale delle famiglie, favorire il tasso di occupazione femminile, migliorare le competenze genitoriali e creare una maggiore coesione nella famiglia e nella comunità.

Indispensabile quindi agire in questa direzione, se è vero che “se cambiamo l’inizio della storia, cambiamo tutta la storia”[19].

E infine un ultimo approfondimento (box1) sulla storia del nido per comprendere come essa nasca per il sostegno alla famiglia bisognosa ma abbia acquisito negli anni sempre più valore educativo.

 

(dalla rivista “Medico e Bambino” 6/2018; 37:361-370)

 

[1] Hsin A, Felfe C. When does time matter? Maternal employment, children’s time with parents and child development. Demography 2014;51:1867-94.

[2] Istat novembre 2017. Occupati e disoccupati.

[3] Mancini AL, Pasqua S. Asymmetries and interdependencies in time use between Italian Spouses. Working Papers, Centre for Household, Income, Labour and Demographic Economics (ChilD) 12/2009.

[4] Del Boca D, Mancini AL. Parental time and child outcomes. Does gender matter? Questioni di economia e finanza (Occasional papers), Banca d’Italia, n. 187, 2013.

[5] Arpino B, Pronzato CD, Tavares LP. The effect of grandparental support on mothers’ labour market participation: an instrumental variable approach. European Journal of Population 2014;30(4):369-90.

[6] Del Boca D, Piazzalunga D, Pronzato C. Early child care and child outcomes: the role of grandparents. IZA Discussion Paper No. 8565, 2014.

[7] National Institute of Child Health and Human Development, Early Child Care Research Network. Child Development 71, 2000.

[8] National Institute of Child Health and Human Development, Early Child Care Research Network. Child Development 71, 2000.

[9] Votruba-Drzal E, Coley R, Chase-Lansdale P. Child care and low-income children’s development: direct and moderate effects. Child

Development 2004;75(1):296-312.

[10] Del Boca D, Pasqua S. Fondazione Agnelli. Esiti scolastici e comportamentali, famiglia e servizi per l’infanzia. Università di Torino su banche dati INVALSI e ISFOL Plus, 2010.

[11] Parente M. Orientamenti di qualità nello sviluppo dei servizi educativi per la prima infanzia. In A. Mariani, Cultura della qualità nei

servizi educativi per la prima infanzia, 2015.

[12]Bove C. Parent involvement (2007). In R. S. New & M. Cochran (Eds.), Early childhood education. An international encyclopedia. vol 4 pp1141–1145. Westport (CT): Praeger Publishers.

[13] Catarsi E. I genitori nell’asilo nido. In E. Catarsi & A. Fortunati (Eds.), Educare al nido: Metodi di lavoro nei servizi per l’infanzia. Roma: Carocci, 2005:59-71.

[14] Ahnert L, Gunnar MR, Lamb E, Barthel M. Transition to child care: associations with infant- mother attachment, infant negative emotion, and cortisol elevations. Child Development 2004;75(3):639-50.

[15] Arace A. Psicologia della prima infanzia. Mondadori Università, 2010.

[16] Brunelli A, Manetti S, Panza C. Asilo nido e malattie ricorrenti. Quaderni acp 2013;20(2): 90.

[17] Brunelli A, Manetti S, Panza C. Asilo nido e malattie ricorrenti. Quaderni acp 2013;20(2): 90.

[18] Tamburlini G. Nido, miracoloso nido. Medico e Bambino 2013;32:415-7.

[19] World Health Organization, United Nations Children’s Fund, World Bank Group. Nurturing care for early childhood development: a framework for helping children survive and thrive to transform health and human potential. Geneva: World Health Organization; 2018.

 

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