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La scuola come laboratorio interculturale

Leggendo questo articolo di Repubblica di oggi, a cura di Francesco Merlo, mi sono tornate in mente le chiacchiere fatte con la ex preside della scuola Pisacane fino all’anno scorso. La scuola elementare in oggetto, con la più alta presenza di bambini stranieri d’Italia, è effettivamente a cavallo tra due quartieri a forte presenza di famiglie extra-comunitarie, di differenti paesi d’origine. Negli anni scorsi mi è capitato più volte intervistare o scambiare chiacchiere con la ex Preside della Pisacane: “Non sono italiani perché la legge non prevede che i bambini nati da stranieri su territorio italiano acquistino direttamente la cittadinanza. Ma pochissimi di questi bambini parlano la lingua dei genitori e, anzi, tutti parlano in romanaccio, più di me!”. È un peccato che la scuola venga dipinta spesso come “scuola non di Roma, dove l’Italia è l’altro mondo”. La Pisacane è Roma: è la capitale, nella sua complessità, nella presenza di tante etnie differenti, nella paura degli italiani di mandare i figli lì, ma è Roma. Le scuole rispecchiano quella che è la popolazione del territorio, a volte più e a volte meno. E la Pisacane dovrebbe avere le attenzioni di tutti non come “scuola ghetto”, ma come esperimento con tutte le difficoltà che questo comporta, come “scuola laboratorio interculturale”, promotrice di attivazione di tutto il quartiere. L’articolo si conclude con la “sensazione” che Roma possa rinascere proprio dalla Pisacane: ma senza le maestre, e senza adeguate azioni propositive, non possiamo attenderci dei grossi risultati. Le maestre sono le prime promotrici di un intervento pedagogico e sociale: non sarebbe possibile lasciare fare solo alla vita, come afferma Merlo, perchè si rischierebbe di perdere di vista i veri protagonisti della querelle, i bambini della Pisacane, con la loro voglia di crescere e imparare. Nel migliore dei mondi possibili.
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